Nessun cucciolo rimane cucciolo tanto a lungo. Dopo un po’, infatti, un neonato si stufa e inizia a gattonare. Passa ancora del tempo e si rende conto che potrebbe fare molto di più. E lo fa.
Se si fermasse, contento di quello che è, non si alzerebbe certo in piedi per compiere i primi passi verso mamma e papà.
Ma allora, quand’è che possiamo dire di essere compiuti, di essere perfetti?
La risposta, molto probabilmente, è MAI. Perché la perfezione è come Babbo Natale: non esiste.
La perfezione, proprio come il nostro barbuto dispensatore di regali, è un’idea che vive soltanto nella nostra mente oppure perché, come sosteneva Platone, la andiamo a prendere da qualche altra parte, cioè da un mondo perfetto in tutto e per tutto, l’Iperuranio. Peccato però che non sia affatto il nostro, di mondo.
La perfezione è qualcosa a cui possiamo tendere, ma di fatto è irraggiungibile. Come quelle rette o curve, detti asintoti, le quali, su un piano cartesiano, si avvicinano indefinitamente al proprio asse, senza mai arrivare a toccarlo.
Insomma, non possiamo essere genitori perfetti, amici perfetti, partner perfetti, lavoratori perfetti, ma sicuramente abbiamo l’opportunità di diventare genitori migliori, amici migliori, partner migliori, lavoratori migliori, e via di questo passo.
Ognuno di noi possiede, dentro di sé, un potenziale che scalpita, che vuole esprimersi, che vuole mettersi alla prova. Dire a noi stessi che andiamo bene così, che siamo perfetti così, rischia di diventare una scusa per soffocarlo e rimanere immobili come belle statuine.
Sia ben chiaro. Dire che non siamo perfetti non significa che siamo inadeguati. Non accontentarsi mai di quello che siamo non significa autoflagellarsi o essere duri con sé stessi. E non significa nemmeno che dobbiamo rimandare la nostra felicità a quando saremo migliori, a quando saremo finalmente “realizzati”, ammesso che questo obiettivo finale ci sia davvero.
Per come la vedo io, il miglioramento non è un percorso lineare da un punto A fino a un punto B, dove si può soltanto salire, salire, salire. Il miglioramento è un duro percorso a ostacoli, con salite, discese e punti morti, dove ti puoi impantanare in ogni momento, dove magari ti vedrai costretto a pazientare, stringere i denti o anche tornare indietro.
La cosa importante, fondamentale, è quella di godersi a pieno ogni tappa, anche la più dura ed estenuante. Altrimenti, la felicità sarà sempre rimandata a data da destinarsi, spostata sempre più in là in futuro incerto e nebbioso come la pianura padana. Altrimenti, a ogni passo ci faremo incupire dall’ombra del fallimento, sentendoci ogni volta in dovere di fare di più e meglio.
Se da una parte abbiamo questo potenziale da esprimere, questo “cucciolo” un po’ impacciato che vuole alzarsi in piedi e imparare a camminare libero sulle proprie gambe, dall’altra non dobbiamo nemmeno lasciarci plasmare dai modelli finti che la società ci impone. Anche questi, come le idee di Platone, stanno da un’altra parte e, molto spesso, nemmeno ci appartengono. Anzi, dirò di più, molto spesso questi modelli che vediamo spopolare su Instagram o nelle pubblicità sono soltanto delle gabbie che ci limitano, opprimendo le nostre reali potenzialità e mettendoci in conflitto con quello che siamo veramente.
Quindi, dobbiamo accettarci così come siamo, dobbiamo essere contenti di quello che siamo? Nel senso “buono”, assolutamente NO.
Concediamoci sempre quel margine di crescita ed evoluzione, quella “fame” per poter diventare la versione migliore di noi stessi oppure anche solo per diventare qualcosa che non siamo mai stati prima.