Il termine vinyasa è un po’ come il prezzemolo: nello yoga se ne sente parlare un po’ da tutte le parti. Ma cosa si intende esattamente? E perché è importante non fare confusione?
Come sempre, iniziamo con l’indagare sul significato della parola: se la scomponiamo nelle sue due radici sanscrite, infatti, otterremo:
Nyasa, che sta per posizionare
Vi, che significa in modo speciale
Posizionare in modo speciale può voler dire molte cose e, in effetti, molte parole sanscrite tendono spesso ad assumere significati diversi a seconda del contesto. Nel mondo dello yoga, in ogni caso, vinyasa può essere inteso principalmente in tre accezioni. Vediamole insieme.
Vinyasa come yoga “dinamico”
Si parla spesso di vinyasa yoga in contrapposizione con hatha yoga. Se quest’ultimo approccio prevede di mantenere ogni posizione sul tappetino per un po’ di tempo, nel vinyasa le posizioni si susseguono l’una con l’altra in modo più dinamico e fluido. Da una parte quindi abbiamo uno stile più freddo e introspettivo, dall’altra uno stile più caldo ed espansivo. In altre parole, semplificando e banalizzando molto il concetto (e chiedo venia per questo), nell’hatha si sta fermi come belle statuine, mentre nel vinyasa ci si muove e si suda come se fossimo a una lezione di zumba. 😊
Gli stili dinamici, come il Vinyasa Flow o il Power Yoga, particolarmente apprezzati dagli occidentali e soprattutto dalle palestre, si sono moltiplicati a vista d’occhio, ma il primo di cui abbiamo conoscenza è l’Ashtanga Vinyasa Yoga, da non confondere assolutamente con l’Ashtanga Yoga, o Yoga integrale (sì, nel settore è tutto un po’ complicato).
Il metodo dell’Ashtanga Vinyasa Yoga fu codificato da Patthabi Jois e, negli anni Settanta, venne diffuso in Occidente, e in particolare negli Stati Uniti, dal suo allievo Norman Allen. Patthabi Jois era a sua volta allievo del famosissimo yogi Krishnamacharya (nella foto), talmente famoso da essere stato ingaggiato dal Maharaja in persona per insegnare lo yoga ai figli, alle guardie e alle gente che viveva nel palazzo reale di Mysore, in India. Sri Tirumala Krishnamacharya afferma di aver appreso i concetti del vinyasa da un testo antico chiamato Yoga Korunta, di cui però non esiste alcun riferimento storico.
Stando alla sua biografia, il testo si componeva di due parti: una trattava il sistema dei vinyasa e l’altra era lo Yoga Sutra di Patanjali con il commento, Yoga Bhasya, di Rishi Vyasa. Per farla breve, il sistema dei vinyasa sarebbe stato adottato per venire incontro agli “uomini di famiglia”, cioè a tutte quelle persone che, dedicandosi al lavoro e alla famiglia, non avevano il tempo di seguire tutte le pratiche dello yoga, a differenza dei monaci che, a quanto a pare, non avevano queste grandi faccende da sbrigare. Anche Krishnamacharya stesso, lo ricordiamo, rinunciò alla vita monastica per prestare i suoi servigi nella società.
Tutta questa sbrodolata storica serve per dire che l’Ashtanga Vinyasa, per quanto sia una pratica vigorosa e fisicamente impegnativa, non dovrebbe essere considerata affatto come semplice “ginnastica”. Come detto fin qui, gli yogi erano alla ricerca di un metodo per ottenere gli effetti purificatrici dello yoga in un tempo molto più ristretto. E l’Ashtanga Vinyasa ne è appunto il risultato.
Vinyasa come movimento sincronizzato col respiro
Posizionare in modo speciale, come abbiamo visto all’inizio, è il significato letterale del termine vinyasa e potrebbe essere visto anche come: posizionare l’asana dentro il respiro. In altri termini, il movimento nello yoga è “incluso” all’interno di una fase respiratoria ed è perfettamente sincronizzato con il respiro stesso.
Il concetto del vinyasa significa quindi che, senza respiro, non c’è movimento. Prima del movimento, parte il respiro, non viceversa, e il respiro guida il movimento. Potrebbe sembrare una banalità, ma se mi concentro e mi identifico con il respiro, invece che con il corpo e con i muscoli, la pratica dello yoga è tutta un’altra cosa. Ritorna a essere, molto semplicemente, la pratica energetica, ipnotica e purificatrice come era concepita fin dalle sue origini.
Vinyasa come sequenza di transizione
La terza accezione del vinyasa è quello di “sequenza”. Possiamo riferirci a una generica sequenza di posizioni che si susseguono una dopo l’altra in modo fluido e coordinato, ma non necessariamente “veloce”, oppure a una sequenza di transizione, di due o più asana, che serve a collegare tra loro altre posizioni. In questo secondo caso, il vinyasa è molto importante in quanto riporta il corpo in una posizione neutra prima di affrontare le asana successive. Questa sorta di “reset” non azzera certo i benefici del lavoro svolto in precedenza, ma serve per annullare eventuali vizi posturali dell’asana appena eseguita, decomprimere le articolazioni coinvolte, riallineare gli arti e la colonna vertebrale, ricalibrare la posizione di spalle e bacino, e cosa molto importante, mantenere vivo il “fuoco” durante la pratica.
In altre parole, il vinyasa inteso come transizione diventa particolarmente prezioso per non distrarsi, non disperdere “calore” tra una posizione e l’altra e quindi mantenere la presenza mentale dall’inizio alla fine.
Come si può intuire, il vinyasa in tutte e tre le “versioni” costituisce un elemento potentissimo che rende lo yoga una disciplina unica e straordinaria. Mi rendo conto che a parole sia difficile rendere pienamente l’idea, quindi non resta che iniziare a praticarlo.
😉